A occhi spenti
Un grazie a Giuliana Balzano per questo racconto che ci da l'occasione di riflettere sulla necessità, che arriva in alcuni momenti della vita, di fermarci ad Ascoltare e ad Ascoltarci...in alcuni casi questa necessità è talmente urgente da dover chiedere aiuto all' Universo per potersi manifestare.
Vi auguro una buona lettura!
Micaela Iaia fouder
Sanitariamente Coaching Sanitario®
Giuliana Balzano, scrittrice e infermiera
riferimenti/contatti : https://www.facebook.com/collanaeditorialestoriedivitaleucotea
A occhi spenti
Cercavo il buio e il silenzio. Mi servivano. Ero
convinta che chiudendo gli occhi avrei trovato il buio, che abbassando le
palpebre avrei spostato la cartella, contenente i coloridella mia vita, nel
cestino. Proprio come facciamo quando vogliamo eliminare dei file dalnostro pc.
Ed ero anche convinta che, stando sola e chiusa nella mia stanza, avrei trovato
di colpo il silenzio, quello che otteniamo dopo che premiamo il tasto mute del telecomando.
No, non funziona così, perché anche il buio contiene colori e il silenzio
contiene voci. Anzi, il buio i colori li rafforza, evidenziandoli, il silenzio
le voci le schiarisce, amplificandole.
Stavo passando un momento difficile. Sei mesi prima mi ero imbattuta in una spiacevole conoscenza: quella del mio dolore. Avevo perso i miei genitori in un incidente stradale. Due in un colpo solo, come quelle offerte che ti fanno al supermercato: due prodotti al prezzo di uno. Credevo che il silenzio e il buio mi avrebbero alleggerito il cuore e placato la rabbia. A cosa servono luce, colori, suoni e voci a chi prova dolore? Io, il dolore, me lo ero ritrovato davanti tante volte. Lo sapevo riconoscere, riuscivo a parlarci e a farci i conti tutti i giorni. Ho avuto occasioni per rimproverarlo, per castigarlo, per voltargli le spalle e non mi vergogno a dire che ci sono state volte che l'ho preso un po' in giro, deridendolo, perché mi sembrava esagerata la sua manifestazione. Facile fare tutte queste cose con il dolore quando con il dolore ci devi solo lavorare, quando il dolore è quello degli altri. Ora ero a stretto contatto con il mio dolore. Il peggio era passato, ma ero ancora in convalescenza. Ero vulnerabile e credevo che il buio e il silenzio mi avrebbero giovato. Invece fu peggio perché più stavo al buio, più vedevo colori e più stavo in silenzio, più sentivo voci.
Implorai Dio di accecarmi e assordarmi.
Avevo quarantacinque anni e non avevo mai chiesto niente a Dio, non per timidezza o per paura di recargli disturbo e nemmeno perché io non credessi alla sua esistenza. Semplicemente perché non avevo mai avuto bisogno dilui. In tutta onestà devo ammettere che ho sempre creduto poco nella sua capacità di compiere miracoli. Ci provai ugualmente e, con disperazione, lo implorai. Tutto mi sarei aspettata meno che mi ascoltasse, anche se, come volevasi dimostrare, non realizzò proprio un lavoro perfetto, perché fece solo una delle due cose che gli chiesi: mi accecò. Devo riconoscergli il merito di aver compiuto un lavoro che presupponeva una certa conoscenza della medicina. Mi provocò un'ischemia cerebrale, ovvero una riduzione di apporto di ossigeno al cervello. Nel mio caso una sottrazione di ossigeno ai lobi occipitali, provocandomi quella che i medici chiamano cecità corticale. Mi ritrovai cieca, ma con ilmio buon udito. Mi risvegliai distesa in un letto di ospedale con mio marito che mi diceva: «Stai tranquilla,amore, va tutto bene. È tutto passato. Come ti senti?».“È passato cosa? Cosa mi era accaduto? E perché non ci vedevo?” mi domandavo...Avevo paura a chiedere a mio marito cosa mi fosse successo ma non avevo scelta: «Io non ci vedo. Tu come stai? Ci è accaduto un incidente, forse?».«No, amore. Ti è venuta un'ischemia cerebrale, ma stai tranquilla. Non ci vedi, ma i medici dicono che la cecità può essere transitoria.»«Può “essere” significa che forse potrei rimanere cieca per sempre?»«Amore, stai tranquilla. Guarda, ci sono Elena e tua sorella.»Era la terza volta che mio marito mi diceva di stare tranquilla. Come potevo rimanere tranquilla in quelle condizioni? Questo significava solo una cosa: mio marito era piùspaventato di me. Chi ti invita a stare tranquillo in realtà è il primo ad avere una fottutissima paura.«Mamma, sono qui!» mi diceva mia figlia stringendomi la mano sinistra. La destra invece era tra le mani di mia sorella. Me l'aveva afferrata senza dirmelo. Era da solo pochi minuti che vivevo una nuova vita, la vita di una cieca, ma già avevo appreso la sensibilità del tatto.Diciamo che ero partita avvantaggiata: mia sorella aveva sempre avuto le mani fredde anche in piena estate. Quello che mi generava più ansia non era tanto il buio ma, per assurdo, il silenzio che avevo intorno a me. I miei famigliari non dicevano più una parola. Piangevano e basta. Un’altra cosa imparai subito: è molto meglio vedere una persona piangere che sentirla soltanto. Il pianto genera un rumore che stride come un treno quando s'arresta. Finché vedi piangere non ti rendi conto di quanto rumore provochi il pianto. Credetemi, vedere con le orecchie sarà anche impegnativo, ma rende una visione più precisa e più chiara delle cose e delle persone che ci circondano.
Quando ero bambina, mio nonno mi ripeteva spesso che l'essere umano
riesce ad adattarsi ad ogni situazione, anche alle più grandi tragedie. Io non ero d'accordo e
così lui mi portava degli esempi. Ogni volta gli ripetevo: «Certo, nonno, sarà
così per tutti, ma non per me. Spero proprio che nella vita tutto mi possa
andare bene».Lui mi abbracciava forte e mi diceva che non avevo abbastanza
fiducia in me stessa e che, nel malaugurato caso in cui qualcosa nella vita mi
fosse andata storta, io avrei saputo adattarmi. Aveva ragione lui. Mi ero
adeguata conformandomi alla mia cecità e non solo. Mi ero adattata al materasso
del letto, ai ritmi ospedalieri, ai miei colleghi infermieri e ai medici. Stavo
dall'altra parte della barricata. L' ospedale mi appariva diverso ora che mi ero
tolta la divisa da infermiera per indossare il camice da paziente. Tutto era
chiaro. Da questa postazione, ovvero dal mio letto, percepivo le cose e le
persone per quello che realmente erano. Le mie orecchie mi permettevano
un'osservazione migliore rispetto a quella che mi avevano sempre offerto i miei
occhi. Anche le mie mani non erano da meno. Riuscivo a distinguere parole e
strette di mano sincere da quelle pronunciate e date per circostanza. I medici
erano contenti della mia condizione clinica, ma nello stesso tempo erano
stupiti che fossi stata colpita da un’ischemia cerebrale, visto che non soffrivo
di nessun fattore predisponente. Non potevo certo dire loro che era stato Dio,
su mia precisa richiesta, a provocarmi tutto ciò. Avrei rischiato di trovarmi
ricoverata in psichiatria. Per scrupolo vollero tenermi ancora qualche
settimana sotto controllo trasferendomi nel reparto di riabilitazione, anche se
tutti gli ingranaggi del mio corpo si muovevano alla perfezione. L'udito, il
gusto, l'olfatto e il tatto funzionavano benissimo.Continuava a mancarmi solo
la vista.
Fu così che nella mia nuova stanza di degenza conobbi Lidia, una donna
di quarantanni, che a causa di una caduta si era rotta il femore. Stava bene,
doveva solo fare la riabilitazione. Si avvicinò al mio letto con l'ausilio di
una sedia a rotelle.Non ebbe nessun problema a dirmi:
«Ciao, io mi chiamo Lidia. Sono Down, però!».
«Ciao, sono Mara, sono cieca. “Però”, cosa?»
«Cieca? Quindi non ci vedi? “Però” nel senso che non sono tutta centrata.»
«Cieca che una talpa, in confronto a me, ha una vista a raggi x. Per “centrata” intendi dire che non sei normale?»
Si mise a ridere: «Eh sì, non capisco proprio tutto. Ma so leggere benissimo e amo i libri.Tu cosa sai fare bene?».
«Io faccio
ridere.»
«È vero, fai ridere perché hai una faccia buffa. Vuoi che ti legga qualcosa?»
«Faresti questo per me?»
«Sì, se ti piacciono i libri.»
«Lo sai come mi chiamavano prima che perdessi la vista?»
«Come faccio a saperlo se non ti conoscevo prima?» “Sarà anche Down, ma è sveglia.” pensai...
«Hai ragione! Mi chiamavano “mangialibri”.»
«Allora diventeremo amiche.»
«D’accordo, amica
mia.»
Sentii una stretta allo stomaco e mi sembrò addirittura di intravedere una luce. Fu un attimo. A quel punto capii tutto. Dio si era spinto oltre un limite che io non avevo compreso. Avermi reso solo cieca, venendo meno a quello che gli avevo chiesto, non fu per una sua negligenza o per incapacità. Aveva architettato un piano ben più ampio e preciso. Mi rese cieca mantenendo il mio buon udito per farmi fare la conoscenza di Lidia. Questo era stato il suo disegno. E io che dubitavo di lui. Per quindici giorni e tre libri dividemmo la stanza. Lidia era una donna eccezionale. Vivevain un istituto. Le promisi di andare a trovarla e lei di leggere sempre per me.Il giorno dopo che Lidia lasciò l'ospedale io incominciai a intravedere delle luci. Nel giro di un mese riacquistai la vista. Finalmente dimisero anche me. Una settimana dopo andai a farle visita. Mi chiedevo se il suo viso non fosse troppo diverso da come me lo ero immaginato. La giornata era splendida. Molti degli utenti erano nel giardino che circondava l’istituto. Mi misi subito a cercarla e mi resi conto che non la stavo cercando usando gli occhi ma le orecchie. Avevo gli occhi chiusi e le orecchie bene aperte. Avvertii un tuffo al cuore quando le sentii dire: «Certo che te lo leggo, ma solo se mi ascolti davvero. Non ho voglia di perdere tempo... la mia amica Mara, lei sì che mi ascoltava...» lo stava dicendo a un suo coetaneo. A sentire la sua voce mi sorrise il cuore. La chiamai. Il suo abbraccio fu grande come una vita intera. Non si accorse che avevo ripreso l’uso della vista. Mi fece sedere su una panchina e incominciò a leggere. Non riuscivo a fermarla per darle la bella notizia. A un certo punto arrestò la lettura a causa di uno starnuto. Ne approfittai per dirglielo. Rimase esterrefatta.
Non diceva più una parola.«Non sei contenta per me?»
«Certo che lo sono, ma ora ho paura.»
«Di cosa?»
«Ora sai che sono brutta.»
«Ora so che sei
scema.»
Scoppiò a ridere di gusto. Io scoppiai a piangere. Le lacrime mi provocarono un forte bruciore agli occhi. Li chiusi. Il bruciore passò. Continuai a tenere le palpebre abbassate. Con gli occhi chiusi tutto mi appariva più chiaro. Rimasi così: con gli occhi spenti. Ora, che avevo imparato a vedere con le orecchie, il mio cuore amava di più perché non guardava in faccia nessuno.
Giuliana Balzano