La decima panchina

E dopo la giornata in turno? Cosa c’è dietro la vita di un professionista? Di un infermiere, di un medico, di un fisioterapista, di un tecnico di laboratorio o di  un dirigente sanitario?
C’è una storia unica… e allo stesso tempo una vita come quelle che hanno tutti, fatta di sentimenti incompresi, di delusioni, amori di quelli che fanno male… ma anche di gioie e di rinascite.

Oggi vi invito a leggere il racconto  di Giuliana Balzano, infermiera e scrittrice. Una storia di vita e d' Amore custodita nel cuore di un uomo, Fulvio... una storia come quelle di molti di noi.

La decima panchina  è stato segnalato e premiato al Premio Quasimodo del 2019. 

Giuliana Balzano - riferimenti/contatti :

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Micaela Iaia fouder
Sanitariamente Coaching Sanitario®


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La decima panchina

Fulvio Giullari entrò nello spogliatoio, oramai aveva deciso, sapeva di commettere un brutto gesto, ma doveva farlo: aveva bisogno di quei soldi. Si diresse verso gli stipetti dei suoi diciotto compagnidi squadra, frugò nelle loro borse, prese i loro portafogli e prelevò tutto il denaro che trovò. Lui quel giorno non aveva partecipato all' allenamento di atletica leggera, si era inventato qualche linea di febbre. Arrivò di nascosto. Nessuno si accorse di lui. Un colpo da Arsenio Lupin. Un colpo da centocinquantamila lire. Quella cifra gli poteva bastare.
Alessia Sirvoli era una bellissima ragazza di diciassette anni. L'anello che il suo ragazzo le aveva regalato, per suggellare il loro amore, splendeva al dito anulare della sua mano sinistra. Alessia era così felice di portare quell'anello, che non tolse nemmeno per sostituirlo con la fede nuziale.
Quella la mise al dito anulare destro. Quell'anello lo portò con sé anche dopo la morte, quando a settant'anni lasciò questa terra. Aveva chiesto a sua figlia Maddalena di metterglielo al dito anulare della mano sinistra, prima che la bara, dove lei avrebbe riposato per sempre, fosse stata chiusa.
Irene Montezeni, quarantotto anni, commessa in un negozio di abbigliamento, non era una vera e propria runner ma per lei camminare a passo veloce era diventata una cosa della quale non poteva più fare a meno. Era un modo per scaricarsi la coscienza, si sentiva meno in colpa quando al sabato sera, insieme a suo marito, andava a cena fuori. Faceva sempre lo stesso percorso, e ogni volta si imponeva di fare qualche metro in più della volta precedente. Uscita di casa si dirigeva sempre verso la stessa fra le diverse piste ciclabili presenti nella città in cui viveva, Brunico. La ciclabile, quasi tutta un rettilineo, era lunga circa quattro chilometri e mezzo e, lungo tutto il suo percorso, a distanza quasi regolare, erano state poste nove panchine. Praticamente la nona panchina segnava la fine della pista che da asfaltata diventava sterrata e si introduceva nel bosco. Già da tempo, aveva notato che sulla quarta panchina stava seduto lo stesso signore. Ogni volta che lei oltrepassava la seconda panchina, quell'uomo si alzava e iniziava a correre. Correva così forte che dopo pochiminuti lo perdeva di vista. Lui sì che era un vero runner.
Fulvio Giullari, settantadue anni, insegnante di matematica in pensione, aveva un gran bel fisico atletico. Folti capelli brizzolati, occhi verdi. Sicuramente da giovane doveva essere stato un belragazzo, non che ora non fosse un bell'uomo, ma purtroppo il segno evidente di un pregresso ictus gli aveva modificato l'espressione del volto lasciandogli in ricordo solo la rima buccale deviata asinistra. L' ictus non gli aveva procurato altri danni tanto che correva almeno due volte alla settimana. Irene era di nuovo davanti alla sua pista ciclabile e come sempre quel signore era seduto sulla quarta panchina. Come da consuetudine, appena Irene raggiunse la seconda panchina, lui si alzò, iniziò a correre e dopo pochi minuti era già sparito dalla sua visuale. “Ma guarda quello come corre veloce, chissà fin dove arriverà... non l’ho mai visto tornare indietro.”, pensò tra sé e sé Irene, decisa a non mollare e a raggiungere la meta che per quella giornata si era prefissata.Fulvio, arrivato nel bosco, si sedette su una panchina posta in una piccola radura. Per lui correre quegli otto chilometri, di cui gli ultimi due in salita, non era assolutamente un’impresa difficile. Non erano gocce di sudore quelle che gli bagnavano il viso. Irene stava arrancando, mancava poco alla meta, così poco che non poteva rinunciare. Un ultimopasso e il bosco fu davanti a lei. Finalmente. Fulvio la vide arrivare e quasi il cuore gli si fermò. La sua Alessia lo aveva raggiunto. Si alzò inpiedi e rimase lì immobile con la sua bocca storta semi aperta. Poi scosse la testa. Si risedette. Si rese conto che il dolore gli stava giocando un brutto scherzo: quella donna non era Alessia, anche se sembrava la sua sorella gemella. “Eccolo lì il mio uomo!”, esclamò fra sé e sé Irene. Lo salutò: «Buongiorno e complimenti...lei è un ottimo runner.» «Buongiorno a lei... questione di allenamento.» Irene notò fin da subito quella bocca storta e quel velo di tristezza negli occhi dell’uomo: «Io michiamo Irene.» «Io Fulvio.» «Lei corre da tempo?» «Sì, ma mi scusi io ora devo andare... magari facciamo conoscenza un’altra volta.» «Certo... alla prossima.» L’uomo si alzò dalla panchina e iniziò subito a correre. Lei rimase ancora un po’ lì a contemplare quel panorama che faceva credere all’esistenza di Dio. La fame la convinse ad alzarsi e a rimettere le gambe in cammino.
Fulvio quella sera cenò a casa di sua figlia che notò fin da subito in lui una certa irrequietezza: con la mano destra tormentava il suo labbro superiore ben deviato a sinistra: «Papà, cos'hai?» «Non ho niente!» «Papà, io lo capisco benissimo come ti senti. Anche a me manca la mamma, ma...» «Ma niente... non ci sono -ma- da dire. Senti, vado a casa mia. Grazie per la cena...» «Papà, ti prego non fare così... » «Alla mia età e nelle mie condizioni io faccio quello che voglio. Ricordatelo sempre.» Fulvio Giullari non era mai stato un uomo scontroso. Era sempre stato un uomo disponibile, allegro, socievole e comprensivo. Aveva accettato la malattia di sua moglie con forza e coraggio. Aveva promesso a se stesso e a Dio che sarebbe stato un sostegno per lei e mantenne la sua promessa. Reagì e mantenne la calma, che indossò come una seconda pelle per tutti i cinque anni di malattia della moglie, fino a che non vide sua figlia cercare nel portagioie di sua madre: «Maddalena, cosa stai facendo? Perché frughi nel portagioie di tua madre?» «Papà, perché quel tono? Non sto rubando, semplicemente la mamma mi ha fatto promettere dimetterle questo anello, il primo che le hai regalato, al dito e...» «E un bel niente, dammi qui, non si mettono gli anelli ai morti. Dammi qui! Ti ho detto!» Cercò ditogliere quasi con forza l'anello che Maddalena teneva in mano.«Papà ma cosa fai? Gliel'ho promesso. Diceva che era il simbolo del vostro amore. Glielo avevimesso al dito mentre eravate seduti su quella panchina nel bosco.» «E smettila di parlare! Non voglio sentire, vai via... vai via...»Erano passati quasi due anni dalla morte di Alessia. Parenti e amici dicevano a Maddalena che il tempo avrebbe aiutato suo padre a superare il vuoto che la madre in lui aveva lasciato, ma più passava il tempo più quell'aiuto non arrivava. Dopo la morte della moglie aveva allontanato tutti, compresa la sua famiglia, compresi sua figlia e i suoi due nipoti. Non solo, qualche mese dopo la morte della moglie, Fulvio ebbe un ictus a causa di un severo rialzo pressorio. Fulvio aveva regalato quell'anello ad Alessia quando avevano diciassette anni. Le aveva dichiaratoil suo amore, un amore eterno che si dimostrò davvero tale. Apprendere che Alessia voleva portarsivia quell'anello per sempre, aveva mandato tutta la sua calma e rassegnazione a gambe all'aria. Alessia aveva custodito quell'anello come una reliquia. Una volta messo al dito, nonostante le fosse venuto un po' stretto con il passare degli anni, lo tolse solo quando la chemioterapia incominciò a farla dimagrire. Il rischio di perderlo la convinse a farlo. Lo ripose nel cofanetto di legno che le aveva confezionato suo nonno. Poi, rendendosi conto di morire, chiese a sua figlia di metterglielo al dito prima che chiudessero la bara. E così Maddalena fece. Per Fulvio quello fu insopportabile: pregò Dio ogni giorno di punirlo, non facendolo morire,sarebbe stato troppo facile, ma togliendogli l'uso delle gambe. Dio però sbagliò qualcosa, quell' ictus gli diede in cambio solo una smorfia sul viso. Neanche di Dio poteva fidarsi.
La prima volta che Fulvio, seduto sulla quarta panchina, aveva visto arrivare Irene a passo veloce, credette di impazzire davvero. Quella donna era molto assomigliante ad Alessia, anche nel modo di camminare. Avrebbe voluto fermarla, parlarle ma poi, quando era quasi vicino a lui, si alzava dalla panchina e iniziava a correre. Si era convinto che lei non sarebbe mai arrivata alla panchina nel bosco e invece quel giorno si verificò il contrario. Riuscì anche a contenere l'imbarazzo ma poi dovette scappare. Irene aveva lo stesso profumo di Alessia: profumava di vita.  Due giorni dopo l'incontro con il suo runner, Irene era indecisa se andare o meno a camminare. La giornata era umida e coperta da un cielo scuro che non prometteva nulla di buono. Pensò e ripensò e poi decise: “O la va o la spacca!”, esclamò fra sé e sé. Sperava di incontrare il suo runner ma la speranza andò in fumo quando vide che il suo uomo non era seduto sulla quarta panchina. Fece tutto il suo cammino con la paura che venisse giù un diluvio universale e riuscì ad arrivare fino alla radura davanti all'ultima panchina e, non solo, anche davanti al suo uomo: «Salve, pensavo di non incontrarla.» «In che senso?» «Nel senso che non era seduto sulla quarta panchina e quindi pensavo che oggi non ci fosse.»«Ah... certo... si sieda e si riposi un po'.»Non si era ancora seduta che incominciò a piovere. Fulvio però parve non accorgersene e incominciò a raccontare ad Irene cosa significasse per lui quel luogo, dell'amore che provava per sua moglie e dell'anello che le aveva regalato e messo al dito proprio mentre erano seduti su quellapanchina. Irene ascoltava senza dire una parola. Ad un certo punto si scatenò il temporale. Si alzarono e incominciarono a camminare il più velocemente possibile. Fulvio, appena rientrato a casa, si buttò sotto la doccia e incominciò a piangere. A piangere forte etra un singhiozzo e l'altro quasi gli mancava il respiro. Questo fa il dolore, toglie il respiro, come una pressa ti schiaccia il torace. Ti ricorda che sei vivo mentre tu preghi e invochi Dio di farti morire. Sì, questo fa il dolore: ti schiaccia. Uscì dalla doccia. Si asciugò, indossò il pigiama. Aveva freddo e non aveva fame. Si mise sotto le coperte. E di nuovo puntuale il suo rimorso lo venne a cercare: «Che meraviglia questo anello,Fulvio. Chissà quanto ti sarà costato... non dovevi proprio.»«Sì che dovevo, io ti amo e poi... e poi... avevo dei soldi da parte. Oramai sono anni che i miei nonni a Natale e a Pasqua mi regalano soldi.»«Quanto ti amo amore mio, sei il ragazzo più bello, più gentile, più bravo e più onesto del mondo.»
«No!», gridò Fulvio alzandosi di colpo dal letto.«No! No! No! Dio mio, no! Prenditi le mie gambe, la mia voce, la mia casa, i miei soldi ma non farle mai sapere come ho fatto a comprarle quell'anello. Fai che non lo venga mai a sapere. Proteggila dalla verità.» Passò la notte tra le pieghe del suo dolore. Ogni volta che prendeva sonno quel ricordo lo veniva a svegliare. Sembrava che il buio della notte non volesse lasciar posto alla luce del giorno. Ma nessuna notte può essere così buia da non lasciar posto ad un nuovo giorno. Erano le otto del mattino quando sentì suonare il telefono. Era sua figlia che purtroppo gli comunicava che eravenuto a mancare Carlo, amico di Fulvio, ex compagno della squadra di atletica, testimone delle sue nozze.
“Carlo, Carlo...”, pensò e altri ricordi tornarono a galla: «Allora ragazzi c'è stato un furto. O escefuori il colpevole o vi punisco tutti.», disse a loro l'allenatore.«Ma non è giusto. Perché tutti?»«Perché sì! Tutti ovviamente tranne Fulvio. Lui era malato e quel giorno ad allenamento non èvenuto.»Fulvio ricordava quel momento, mentre le gocce di sudore gli stavano ricoprendo la fronte e il suostomaco si stava richiudendo su se stesso. Voleva non ricordare, ci provava con tutte le sue forze,ma niente da fare, la molla, che mette in moto il meccanismo del ricordo, era scattata. Si arrese e subì l'incedere devastante della sua memoria: «Sono stato io e giuro che ve li restituirò tutti.»«Tu, Carlo? E perché?»«Volevo comprarmi delle scarpe da corsa e una tuta nuove. Ho fatto una stupidata. Chiedo scusa a tutti.»Fulvio sembrava avere della brace viva al posto dello stomaco. Se lo massaggiò con la mano:«Basta! Basta...», urlò ancora. Ma la memoria non provava pena per lui e spietatamente continuava a fargli male: «Carlo, perché hai detto di essere stato tu?»«Fulvio, come fai ad essere così sicuro che non sia stato davvero io?» «Non dire stupidate! Perché ti sei preso una colpa che non hai?» «Perché trovato il colpevole si risolve il caso. E poi chiunque l'abbia fatto avrà avuto una buona ragione. Io voglio pensarla così.» «È questa la tua vendetta, Dio? Farmi vivere senza di loro con questo rimorso? Ti avevo chiesto di togliermi le gambe, non loro.», urlò piangendo. Non sapeva se il giorno dopo sarebbe andato al funerale ma poi insieme a sua figlia si ritrovò difronte alla chiesa. Entrarono. C'erano tutti i suoi ex compagni di atletica. La messa funebre incominciò. “Quante sciocchezze dice questo prete... la vita... la morte... il paradiso... i santi... ma che ne sai tuprete della vita? Che ne sappiamo noi della vita?”, pensava Fulvio quando la voce del nipote diCarlo prese la parola: «Mio nonno Carlo è stato quel padre che non ho mai avuto, che ho perso quando avevo solo due anni. Non so come mio nonno e mia nonna siano riusciti a sopravvivere adun tale dolore. Io e mia madre non ce l'avremmo fatta senza di loro, soprattutto, perdonami nonna,senza nonno Carlo. Mio nonno ha condiviso tutto con noi. Questo mi ha insegnato: a condividere quello che di bello abbiamo con gli altri. E lasciatemi anche dire che mio nonno era un gran bel figo!»Le lacrime di commozione lasciarono posto alle lacrime scatenate dalla risata che quella frase provocò su tutti i presenti. Persino il prete se la rideva di gusto tanto da non accorgersi che dietro di lui c'era Fulvio che voleva prendere la parola. Appena Fulvio si avvicinò al microfono, tutti i presenti ammutolirono: «Non sapevo nemmeno io che mi sarei trovato qui a dire qualcosa, ma leparole di Giulio, mi hanno fatto riflettere sul fatto che il ricordo che abbiamo degli altri deve essere onesto, che la nostra memoria deve essere onesta, non possiamo fare finta di ricordare cose che non sono vere solo per salvarci la vita o la coscienza o solo per stare meglio. Ho due cose da confessare, due macigni, uno è al dito della mano di mia moglie. Il secondo invece, cari miei ex compagni di atletica, riguarda tutti noi. Non è stato Carlo a rubare quel giorno quei soldi nello spogliatoio, ma io.E con quei soldi ho comprato l'anello che la mia Alessia diceva fosse il simbolo del nostro amore. Non so se dopo avervi confessato questo starò meglio, ma non potevo continuare ad umiliare la memoria della donna che ho amato con tutto me stesso e dell'amico che salvò tutta la squadra da una punizione. Non voglio assoluzione, non voglio nemmeno espiare le mie colpe, tanto chiedere aDio qualcosa è inutile se lui non vuole concedertela. Chiedo a voi di aggiungere questo alla vostra memoria: il ricordo di una donna che ha vissuto amando il suo compagno e di un amico che ha dimostrato di conoscere il vero senso dell'amicizia. Grazie a tutti per l'attenzione.» Un battito di mani scrosciante accompagnò Fulvio verso la panca. Qualche minuto dopo la funzione funebre terminò e la gente incominciò ad uscire dalla chiesa,compresa Irene che aveva accompagnato la sua datrice di lavoro al funerale di Carlo, suo amico d'infanzia. Non se la sentiva di andare da sola. Soffriva di una leggera intolleranza all'incenso e aveva paura di sentirsi male durante la cerimonia funebre. Mai più avrebbe pensato di trovarsi di fronte al suo runner. Irene era sempre più in forma e oramai i chilometri che macinava erano davvero tanti in compagnia del suo amico Fulvio.
Un pomeriggio, quasi all'ora di chiusura, suo nipote si presentò nel negozio dove lavorava: «Ciao zia! Volevo chiederti un consiglio. Ho fatto un regalo a Marina, un anello per il nostro sesto anniversario e volevo portarla in un bel posto e chiederle anche di andare aconvivere, ora che la mia casa è ristrutturata. Ti chiedevo, visto che con tuo marito vai spesso fuoria cena, se mi puoi consigliare un locale romantico dove posso confonderla e farmi dire sì.» «Fammi pensare. Sì, so dove potete andare.» «Dai dimmi...» «È un po' fuori mano e non è proprio un ristorante ma è un posto dove chi si giura amore, lo fa per sempre.» «Dai, zia, dimmi.» «La decima panchina.»


Giuliana Balzano