Rosso e Barricato
Sanitariamente nasce per creare consapevolezza, crescita personale e professionale, collaborazione e relazione d' aiuto tra il personale sanitario.
Ogni operatore ha vissuto esperienze diverse che possono essere simili a quelle vissute da altri, la condivisione aiuta a sentirsi parte di un insieme ... non siamo soli.
Inoltre, le molteplici funzioni professionali, all'interno del sistema sanitario, fanno sì che si creino punti di vista diversi, sia nei confronti dei colleghi, dei superiori, dei pazienti e dell'organizzazione in genere.
Non sempre si può capire dall'esterno cosa succede oltre, cosa prova quel collega o per quale motivo quel coordinatore ha preso quella determinata decisione.
Giuliana Balzano è un'infermiera e una scrittrice. Lei ci aiuterà a capire e a condividere la prospettiva di un' infermiera a contatto con i pazienti attraverso il suo vissuto ed i suoi racconti.
Grazie a Giuliana e Buona lettura !
Collana di Storie di vita di Giuliana Balzano:
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Rosso e barricato
La osservavo.
Dietro l'ago della siringa, dietro a un batuffolo di cotone, dietro l'asta della flebo. Mi faceva paura.
Lei aveva voglia di parlare. Io avevo solo voglia, come sempre, di scappare e dimenticare.
Mi infastidiva. Lei aveva voglia di raccontare la sua vita. Io avevo solo voglia di togliermi la divisa e annullarmi.
Cercavo di evitare ogni suo sguardo per non cadere nella sua trappola ma si dimostrò più furba di me.
Approfittò di un mio momento di distrazione e mi chiese: «Me lo porterebbe un bicchiere di vino?».
Lo domandò sorridendo. “Ma lei è matta!”, avrei voluto dirle. Ma non lo feci. Certe cose basta pensarle a volte.
A volte, invece, no.
Conosceva benissimo la risposta ma ci provò ugualmente. Avrei potuto dirle di -no- ma quella donna possedeva due armi vincenti: l'amore e il suo sorriso.
Fa paura leggere l'amore sul viso di chi sta per morire. Ancora di più leggerci un sorriso. L’amore e il sorriso degli altri ci disarmano. È più facile affrontare l'odio e la rabbia. Siamo abituati di più a questo genere di cose.
Respirai profondamente, la guardai negli occhi e le risposi: «Sì,ha preferenze?» «Barbaresco ma l'importante è che sia rosso e barricato». “Ma lo sa che lei è davvero una donna insolente?”, avrei provato quasi un piacere fisico a dirglielo ma invece quelle parole rimasero intrappolate nei miei pensieri. «Il mio turno finisce alle 14. Dovrò tornare più tardi, con una
scusa venire da lei e darle il vino di nascosto…» «Sono certa che ci riuscirà. Lei riesce in tutto.»
“Stronza e maledettamente ruffiana!”, qualcuno doveva pur dirglielo ma quel qualcuno non potevo certo essere io.
Non era vero che riuscivo in tutto, ovviamente.
Sfoderai il mio migliore sorriso finto e le dissi :«Troverò il modo, ci vediamo dopo, stronza!» Stronza lo pensai soltanto.
«Bene, anzi benissimo.», mi disse. “Ma bene cosa? Cosa va bene qui?” Domande che rimasero sospese nell'aria insieme a molte altre cose che da tempo pensavo.
Raddrizzò la schiena. “No! Sta a vedere che ora mi chiede dove abito e se ho dei figli.”, pensai. «Abita in zona, ha dei figli?» Avevo pensato giusto. «Sì, ho un figlio e abito davanti alla stazione.» «Io non ne ho. Io abito dall'altra parte della città. Lei quantianni ha?» Cercai di rimanere calma per non dirle: “Ma crede che io non lo sappia che non ha figli? Guardi che io so tutto di lei. Dovrei fare finta di non sapere quanti anni ha? Forza, la smetta che si rende ridicola.”
Schiarii la voce e risposi: «Ho 50 anni.» Non volevo farlo, non se lo meritava ma poi lasciai perdere. Tutti meritano una seconda possibilità: «E lei quanti anni ha?», glielo chiesi cercando di assumere un tono curioso.
Mostrò una faccia compiaciuta, si aggiustò il ciuffo dei capelli emi rispose: «Ho 29 anni, compiuti un mese fa. Quest'anno non ho festeggiato come si deve il mio compleanno ma il prossimo anno, che ne farò 30, lo festeggerò alla grande.»
“Ma insomma! Io le do una mano e lei si prende l'intero braccio. Ma cosa me ne frega se non ha festeggiato il suo compleanno e se il prossimo anno… quale prossimo anno, scusi?”, avrei voluto dirle.
Calò la nebbia. Davanti a me solo il vuoto. Un passo falso e sarei precipitata giù. L'unica via di salvezza sarebbe stata quella di volatilizzarmi. Evaporare. Non essere mai esistita.
Era questo quello che avrei voluto fare ma queste cose riescono solo ai supereroi.
La salutai con un cenno della mano e lei come se niente fosse mi congedò dicendomi: «A domani, cara, mi raccomando che sia rosso e barricato.»
Ero quasi salva ma mai cantare vittoria. Sulla porta mi trovai di fronte a sua madre. Sua madre. Osservavo anche lei.
Dietro le bottiglie d'acqua che le portava, dietro la biancheria pulita che le metteva nel comodino, dietro il pettine che le
passava tra capelli. Mi faceva rabbia. Era sempre sorridente. Io non sorridevo nemmeno
dietro una dose di solletico. Mi faceva irritare. Era sempre gentile, anche con me. Io ero sempre imperturbabile e del resto non ero cordiale nemmeno con me stessa.
«Salve! Finito il turno. Tutto bene?» “Tale madre, tale figlia. Anche lei aveva voglia di parlare. Una tara ereditaria, insomma. Magari era così anche la nonna.”, pensai. «Tutto bene.», risposi. La guardai dritta negli occhi. La studiai per bene, quasi a contarle le rughe che aveva sotto gli occhi e notare quel neo cheaveva sulla fronte. Qualcosa su quel viso non mi tornava. Mancava un dettaglio. Lo cercai tra gli occhi e il naso, tra lelabbra, tra gli zigomi, sulle gote ma niente. Poi la sua voce richiamò la mia attenzione, mi disse sorridendo: «Posso chiederleuna cosa che le sembrerà molto strana?» Mi aveva pure sorriso. Aveva il coraggio e la forza di sorridermi.Roba da non credere!«Chieda senza problemi.»«Secondo lei potrei portare un po' di vino a mia figlia? Desidera così tanto berne un bicchiere…»
“Ma allora ditelo che mi avete presa di mira. Con tutte le infermiere che girano in questo reparto, ma perché lo chiedete a me?” Stavo per sbottare, poi chiusi gli occhi e contai fino a 24. Venti era troppo poco e poi è sempre meglio abbondare.
«Glielo porto io, stia tranquilla. Lei eviti di farlo. Qui sono troppo severi.» Bene, oltre alle sigarette ora avrei fatto entrare, nel reparto di una Divisione di Medicina, il vino. Ci mancava della marijuana e dell'eroina e poi avrei chiuso il cerchio.
Dopo aver dato le consegne ai mie colleghi me ne andai velocemente da lì. Come sempre mi mancava l'aria e come sempre ero arrabbiata. La fine della vita degli altri mi irritava.«Il dolore!», esclamai ad alta voce.“Il dolore di quella donna, dov'era?”, mi chiedevo. Ecco cosa non leggevo sul suo viso. Io lo conoscevo il dolore, erail mio pane quotidiano. Io vivevo del dolore degli altri. Dov'era il dolore di quella donna che a breve avrebbe seppellito sua figlia? No, qualcosa non quadrava. Il dolore su quel viso doveva esserci.
Mi soffermai a pensare anche alla paziente. Scossi la testa. Mi resi conto che il dolore non era presente nemmeno sul suo di viso. Dov'era il dolore? Era nascosto oppure era proprio assente? Possibile che mi avesse chiesto un bicchiere di vino con la stessa tranquillità con cui si chiede un bicchiere d'acqua? Il vino, giusto il vino! Dovevo comprarne una bottiglia. C'era una piccola enoteca che dava sulla piazza della chiesa. Mi diressi lì. Entrai e chiesi una bottiglia di Barbaresco. Barricato, aggiunsi. Chi mi servì mi fece assaggiare due tipi di vino. E mentre si apprestava a versarlo in un calice, tutto mi si palesò davanti. In quel liquido rosso, che passava dalla bottiglia al bicchiere e che ora riposava in quel calice, io vidi tutto. Vidi la vita che arrivava e quella che stava per andare. Vidi il dolore e la gioia, il sorriso e il pianto, la paura, l'angoscia, il coraggio e la determinazione. L'odio, l'amore, il perdono e il rancore. L'accettazione, la rassegnazione e l'orgoglio. Vidi la vita che esultava, orgogliosa e fiera. Poi presi in mano il bicchiere e guardai attraverso il vetro. Lo spettacolo non era finito. Quello che vidi mi servì e bastò. E mi basta ancora. Per sempre, per sperare e credere nella forza della vita. Vidi il sorriso di quelle due donne.
Acquistai la bottiglia, mi precipitai a casa, versai il vino dentro una borraccia e poi uscii per recarmi in ospedale.
Due parole con le colleghe, due scuse inventate per entrare nella sua stanza e consegnare la merce alla mia cliente. Mi divertiva immaginarmi un pusher.
L'indomani pomeriggio entrai nella sua camera. Dormiva. Vicino a lei c'era la madre. Le teneva la mano. Alzò lo sguardo e mi sorrise: «Mi hanno detto che non si sveglierà più. Lo pensa anche lei?» Annuii. Non riuscivo a distogliere il mio sguardo dal suo. Non vedevo il dolore. Davanti a me solo un viso sereno. Non riuscivo a dire più di una parola alla volta. Sembravo uno studente agitato e impreparato che durante un'interrogazione cerca di dire il meno possibile per evitare di sbagliare le risposte. Trovai una scusa e uscii dalla stanza, chiusi la porta. Mi fermai.
Decisi di riaprire la porta giusto per osservarla cercando di vedere. Stava accarezzando il volto della figlia. Sorrideva. E ancora sul volto nemmeno il cenno di un po' di dolore. Eppure doveva esserci. Se non era sul volto dove poteva essere?
Due giorni dopo Laura uscì per sempre da quella stanza. Il dolore quel giorno si sarebbe dovuto leggere sul viso della madre. La osservai per bene. Anche questa volta sorrideva. Poi capii. Non l'avrei mai trovato sul suo volto. Il dolore c'era ma non lì. Era dietro. Era sempre stato dietro. Davanti c'era come sempre l'amore.
Quel giorno imparai che il dolore è come un boomerang, se lo lanci, torna indietro. Quelle due donne volevano evitare proprio questo. Perché anche l'amore è come un boomerang: se lo lanci torna indietro. Il sorriso invece è come un'eco, se lo tiri contro un ostacolo non cade a terra andando in mille pezzi ma si ridisegna sulle labbra di chi ce l'ha donato.
Imparai che davanti dobbiamo mettere sempre l'amore e un sorriso. Il tutto annaffiato da un buon vino, meglio se Barbaresco ma l'importante è che sia rosso e barricato.
Giuliana Balzano